Buongiorno 15/03

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Buongiorno 15/03

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Ucraina. Kiev, la (non) leggenda dell’ambasciatore al pianoforte sotto le bombe


Nello Scavo, inviato in Ucraina sabato 5 marzo 2022Il rappresentante italiano Pier Francesco Zazo ha ospitato oltre 100 connazionali nella sua residenza. E tra mille emergenze e una fuga di massa da organizzare, con la musica si esorcizza la paura…

Kiev, la (non) leggenda dell'ambasciatore al pianoforte sotto le bombe

La leggenda dell’ambasciatore che suona sotto le bombe non è una leggenda.

Erano suonate le sirene antiaeree. Di nuovo. Sarà stata la decima volta, quella sera. Giù di corsa nel piano interrato, a decine. Prima le donne coi bambini, poi gli uomini. Infine lui.

L’elegante residenza del rappresentante italiano diventata un accampamento per sfollati. “Ambasciatore sta arrivando un’altra famiglia”, avvertiva il console Federico Nicolacci. E le guardie aprivano il cancello. “Ambasciatore, andiamo via?”, chiedeva qualcuno all’altro capo del telefono. “Non me ne vado se non sono tutti in salvo. E fino a quando a Kiev c’è un governo legittimo, l’ambasciatore italiano non se ne va”.

Pier Francesco Zazo è proprio come vorresti che fossero i diplomatici: polso di ferro e guanto di velluto. E anche spaghetti cotti come si deve, che nella residenza diventata fortino dei disperati se ne scolavano a quintali. Con il console e tutto il personale della Farnesina a districarsi tra relazioni internazionali e i biberon da scaldare. E i superman della sicurezza (si, superman, perché i supereroi esistono) che dopo le “estrazioni” di giornalisti finiti tra i due fuochi e il recupero di cibo e documenti sensibili schivando le smitragliate, prendono per mano i bambini e fanno sentire che con quei muscoli e quello sguardo non c’è niente da temere. È solo baccano, niente di più. Hanno figli a casa, ma oggi sono padri anche qua.

Intorno al magnifico pianoforte Petrof, posto in un angolo del grande salotto con i divani diventati letto e i tappeti materasso, i reporter scrivono e imprecano. Perché i missili piovono e le corse nel bunker fanno ritardare l’ora d’invio del pezzo in redazione. Sul leggìo, gli spartiti che Pier Francesco Zazo non ha il tempo di riordinare. C’è la guerra intorno e sopra di noi. Il suo telefono è sempre aperto. Relazioni internazionali e decisioni da prendere al volo. E intanto, in silenzio, organizza piani di evacuazione per gli oltre cento connazionali. Ma non si deve sapere.

Alcuni di noi, stufi del saliscendi e del gran frastuono degli ordigni e dei bagliori che ci costringono a interrarci come talpe spaventate, a un certo punto decidono di rinunciare al bunker. Le bombe cadono vicine. Vediamo la scia e sentiamo l’onda d’urto. Per strada ci sono scontri ravvicinati. E allora morire in un bunker che ci precipita addosso o distesi su un divano damascato “made in Italy”, fa poca differenza. “Ma è meglio il sofà”, ci diciamo con un paio di colleghi in preda alla spavalderia di chi a ogni sirena sente scattare un proprio intimo conto alla rovescia.

Ed è stato in uno di quei momenti, quando solo la poesia dei gesti e l’arte del coraggio sanno rimettere le cose a posto, che una volta esaurito l’ennesimo attacco dall’alto e mentre ne arriva un altro peggiore, Pier Francesco Zazo, in jeans e pullover, che di diplomatico hanno solo l’eleganza di chi l’indossa, si siede al pianoforte. E suona. “Libertango” di Astor Piazzolla, e poi alcuni passaggi senza tempo. Saranno stati un paio di minuti, forse meno. Tra una telefonata della Farnesina e una al governo di Kiev. Ma in quegli istanti di ritorno alla normalità, l’ambasciatore che suona sotto le bombe ci ha insegnato che la poesia e l’arte non hanno paura delle bombe. Aveva chiesto di non essere ripreso in video, così come aveva chiesto di tenere riservate le operazioni – poi riuscite – per salvare gli oltre cento italiani con una ventina di neonati e una decina di bambini piccoli.

Non abbiamo mantenuto quella promessa. E Zazo ci ha già perdonati. Perché nella filigrana di certe vite c’è la spina dorsale di un uomo e di ciò che rappresenta.

“La diplomazia senza armi è come la musica senza strumenti”, diceva il re prussiano Federico il Grande. E per fortuna a Kiev non abbiamo sentito solo le bombe.

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